(sottotitolo: “quattro chiacchiere in libertà”)

La recente audizione di un mio carissimo amico (nonché grande esperto di diritto delle tecnologie, privacy, sicurezza delle informazioni e intelligence) alla Commissione Difesa della Camera dei Deputati sul tema della “sicurezza e difesa dello spazio cibernetico” ha rappresentato l’occasione propizia per tornare a riflettere sui recenti sviluppi del dibattito su questa tematica (che ormai non affrontavo da molto tempo).

Sono infatti passati esattamente quattro anni dal mio “Critica alla ragion cyber“, un documento di poco più di una dozzina di pagine in cui esprimevo tutta una serie di perplessità relative alla percezione comune (e anche di quella specialistica per quanto concerneva l’intelligence e gli studi di intelligence) di tutto ciò che era, o stava diventando, cyber-addicted.

Devo dire che rileggendo “Critica alla ragion cyber” trovo che assai poco sia cambiato, quantomeno all’interno del mio sistema di convinzioni sull’argomento. Se sia bene o un male francamente non lo so, in ogni caso anche il profilo generale del dibattito non mi pare essersi innovato poi così tanto rispetto a quatto anni fa (fatte salve alcune sporadiche eccezioni).

Ciò che si è aggiunto, almeno per quanto mi riguarda, sono una serie di riflessioni del tutto soggettive che l’attuale “contesto cyber” mi evoca (e che forse, chissà, sarebbe anche interessante indagare con una prassi maggiormente scientifica, ma in altra sede). Ad ogni modo quelle che seguono sono solo brevi osservazioni estemporanee sulle quali i veri esperti di dominio della strategia e della scienza politica potranno magari spendere una parola di approvazione o, nel caso, di critica.

La prima riflessione è che mi sembra – gli esperti di dominio vorranno correggermi se sbaglio – che le macro-organizzazioni (compresi gli Stati) siano continuamente in cerca di sempre nuovi spazi (o domini) diciamo così “vergini” in cui sia possibile creare ed esercitare il potere (e quindi – con una qualche probabilità – il conflitto), possibilmente con modalità più “economiche” delle precedenti ma che garantiscano risultati paragonabili.

La seconda riflessione, data la prima, è che lo spazio cibernetico (altrove detto anche “cyberspazio”) sia sempre più una specie di artefatto all’interno del quale (e attraverso il quale) le macro-organizzazioni sono libere di esercitare il potere in modo tutto sommato più spontaneo, con meno restrizioni e in modo tutto sommato assai meno responsabilizzante.

La relativa novità dell’artefatto ed il suo essere in qualche modo un semilavorato, rende inoltre di nuovo possibile uno sforzo di normazione da parte della macro-organizzazioni (e normare è certamente un esercizio di potere) all’interno di quel contesto: nuove regole, nuovi limiti, nuove prassi, nuove sovrastrutture etiche che potranno poi essere rispettate o – ancor meglio – rifiutate, trasgredite, censurate, rinnegate.

L’artefatto spazio-cibernetico viene dunque percepito e interpretato come una specie di “partizione protetta” della “realtà vera” ma una partizione che pur ereditandone ogni proprietà, ne rimane allo stesso tempo avulsa. Tutto sommato qualcosa di molto simile ad una “coltura da laboratorio” (dove per laboratorio s’intende l’insieme dei server, dei computer, dei dati, delle informazioni, dei soggetti, degli oggetti e delle “cose” interconnesse, oltre che di tutte le relative relazioni che tra tali oggetti intercorrono). Un laboratorio dedicato all’esercizio sperimentale degli equilibri di potere dove si può “esistere in potenza” e al tempo stesso – proprio in virtù di ciò – sperare di poter esercitare una influenza, quindi un potere concreto, anche sulla realtà “convenzionale”.

In questo teatro strategico i cyberlemmi sono la grammatica delle narrazioni esistenti all’interno della coltura e i cybercommand sono gli “avatar” – ibridi genetici, interfacce organiche tra specie e ambienti diversi – attraverso le quali le macro organizzazioni “esistono in potenza” nel cyberspazio costruendo un potere “virtuale” – dual use, si direbbe – in modo tale da renderlo portabile anche nella “realtà vera”.

L’inghippo rimane – come sostenuto quattro anni fa in “Critica alla ragion cyber” – nel voler per forza considerare il cyberspazio (qualsiasi cosa sia e in qualsiasi modo si voglia definire) come qualcosa che non appartiene alla realtà, nel voler per forza di cosa discriminare tra l’on-line e l’off-line, come se i due ambienti avessero una qualche soluzione di continuità, senza voler comprendere che è sull’on-life che – anche l’intelligence e gli studi strategici – debbono concentrasi.

E proprio sull’on-life dovrebbero concentrarsi anche la politica e i governi, specie quando si tratta di selezionare le risorse che poi saranno consultate in sede di indirizzo e sviluppo strategico delle politiche per la sicurezza (più o meno cibernetica…) di un Paese.

Poscritto: “…che gli Dei della Cibernetica ci perdonino tutti” (cit.)