Una premessa, in apertura di questo post, questa volta è necessaria. E purtroppo non sarà nemmeno breve. Chi lo volesse, può tralasciare il corsivo e proseguire più avanti nella lettura, ma la promessa di tornare all’inizio, una volta terminata la lettura di queste righe.

 La premessa consiste nel fatto che – e lo dico con grande sincerità – io ce la metto tutta, e dico sul serio, a pormi in modo positivo, aperto e disponibile a valutare posizioni diverse (una visione che qualcuno definirebbe…“liquida”) nei confronti di quella che è la comunicazione istituzionale dei nostri apparati di intelligence. Il mio impegno a prosciugare ogni mia eventuale vena polemica e sarcastica che dovesse insorgere nel trattare di questi argomenti è, vi assicuro, concreto.

Ce la metto tutta nel “lasciar cadere” questioni che invece sono evidenti come una branco di elefanti africani che ti vengono incontro a passo di carica sulla corsia di sorpasso dell’autostrada, mentre la stai percorrendo con il triciclo. Ma anche io, come tutti immagino, ho momenti di cedimento. E vi chiedo scusa per quello che ovviamente è un mio limite (e non un limite delle questioni e dei fatti che commento): ne sono pienamente consapevole e me ne assumo ogni responsabilità diretta, indiretta e – come avrebbe detto Totò – “affine”.

Ma il guaio in effetti è un altro e cioè che quando – ad un certo punto, dopo immani spasmi emotivi e dolorose resistenze autoinflitte – decido di cedere alla lusinga della polemica beh… da quel punto in poi, già che ci sono, mi piace godere delle relative inebrianti sensazioni. Quando ciò accade può anche succedere che l’escalation della “polemica” sia inarrestabile (e questo credo sia proprio uno di quei casi).

Quindi pazienza: non ho molto da perdere (a parte una blanda reputazione…) e questo blog personale (per fortuna…) non smuove puoi più di tanto gli animi e le coscienze per cui… sia dato inizio alle danze!

E’ già successo in “Critica alla ragion cyber” e in misura maggiore in “Open Source Intrelligence Abstraction Layer” che io abbia insistito con una certa veemenza su sull’uso smodato di certi termini e concetti “modaioli” all’interno della produzione istituzionale ed accademica degli intelligence studies (nostrani e non).

Veemenza, questa mia, che di norma – e non, a mio parere, senza una eccessiva dose di superficialità – viene da molti interpretata come esercizio polemico fine a sé stesso. Lasciatemi dire in tutta onestà che non è così. Certo può sembrarlo, non lo nego, ma non è così: il mio scopo nella vita certamente non è – per dirla alla Camilleri – “rompere  i cabbasisi” alle brave persone che curano la comunicazione pubblica del DIS o, in un altro campo, a coloro che si occupano con passione e dedizione di un cyber_qualcosa.

Il punto invece è con è con le parole che si costruiscono i concetti. Ed è con i concetti che si costruiscono i ragionamenti: l’uso di parole e concetti non appropriati non può che portare, nel migliore dei casi, a ragionamenti superficiali, traballanti o peggio a “finti ragionamenti” (intendiamoci: i ragionamenti superficiali possono verificarsi benissimo anche usando parole adeguate e concetti meticolosamente definiti, ma questa è tutta un’altra questione da approfondire in altra sede).

Detto ciò – e spero che basti come premessa a tutela almeno della mia buona fede – il profilo della odierna “missione” (il termine va ovviamente letto in senso largamente sarcastico: come in un gioco di ruolo – dove, a differenza della vita reale, si può scegliere chi e cosa essere – mi attribuisco la parte dell’eroico salvatore della Flotta Stellare…) prevede – manco a farlo apposta – la critica ad articolo dal titolo alquanto… “liquido”, recentemente apparso sul sito istituzionale del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica: “Salto di qualità dell’intelligence contro il terrorismo liquido”.

Chi si è già imbattuto in queste pagine sa che ritengo importante – specie quando la “comunicazione” perviene da fonti istituzionali – la scelta di parole e concetti anche, se non soprattutto, quando il profilo della comunicazione è di tipo divulgativo. Ciò non tanto per una noiosa attenzione alla forma e ma perché – come recitava Gian Maria Volontè nel film “Una storia semplice”

 l’italiano non è (solo) l’italiano… “l’italiano è il ragionare

(*a latere, vi invito a riflettere sulla interessante conclusione alla quale perviene il professore interpretato da Volonté).

Per onestà intellettuale devo però riconoscere che l’articolo di sicurezzanazionale.gov.it è solo un pretesto (un pretesto che concede una certa visibilità, ovviamente…) per parlare di un problema più grande.

L’approssimazione linguistica (e di conseguenza concettuale) è ormai un fenomeno dilagante in quasi tutti i settori della odierna società: il giornalismo, la politica, le istituzioni e spesso – ahimè – anche il mondo accademico non ne sono affatto immuni. E questo non è certamente cosa buona. Avete mai sentito dire un Ufficiale di rotta dare l’ordine “…metti la punta (la prua) a due-due-zero”? Oppure la hostess di un 747 annunciare al copilota che “il cofano (la stiva) è stato chiuso e sigillato”?

Per analogia non dovrebbe essere accettato l’uso (anche quando è proprio il Legislatore a farlo) di locuzioni come “spazio cibernetico”. In molti rispondono a questa osservazione tirando in ballo l’odioso concetto della “lingua viva”, la “lingua che evolve”. Certo che la lingua evolve, ci mancherebbe, ma se con “evoluzione” indichiamo anche fenomeni tipici di involuzione come l’impoverimento semantico, l’omologazione e l’appiattimento (assai ben descritti da Uwe Pörksen nel suo “Parole di Plastica”) della lingua beh… questo non fa che avvalorare l’ipotesi che ci troviamo in una fase di declino culturale dal quale ormai non ci riprenderemo mai più.

Certo, esistono tanti modi di comunicare qualcosa: probabilmente esiste un modo di comunicare per ogni singola platea e per questo motivo qualcuno potrebbe anche obiettare che l’eloquio si rivolga ai non specialisti (quella di un Master di perfezionamento in intelligence si può ancora dire che sia una platea di “non specialisti”?) quindi il linguaggi è “adattato” a quella classe di uditori. A parte che questa – utilissima, ovviamente – capacità di adattamento del linguaggio (e di conseguenza del “messaggio”) al variare del destinatario della comunicazione non mi pare di averla osservata spessissimo in questo settore (che anzi manifesta un larghissimo appiattimento su termini ormai sempre più privi di carico semantico) a questo obbiezione rispondo con la seguente citazione:

“L’esistenza di vari livelli linguistici non è certo un fenomeno tipico della nostra epoca; caratteristici di essa sono però la commistione, confusione, interferenza e quindi lo svilimento espressivo e la difficoltà di comunicazione ed espressione che ne derivano.

Nel creare questa situazione concorrono sia l’accentuata dinamica dello sviluppo culturale e sociale, sia il frammentarsi e tecnicizzarsi di linguaggi particolari, che vengono poi assunti e sfruttati “fuori campo” con effetti di equivocità e imprecisione sempre più diffusi e nocivi. In luogo di un linguaggio comune, sufficientemente articolato e sistemato, in cui ogni componente della società possa esprimersi e ritrovarsi nella sua particolare esperienza di vita e funzione costruttiva, si ha per lo più solo una banalizzazione superficiale ed equivoca di linguaggi particolari, deviati e accostati in modo anarchico senza raccordo, senza apprezzamento critico né avvertenza del loro valore.” [grassetto aggiunto]

Le – attualissime – parole di cui sopra sono di Giancarlo Penati, riportate nel volume “Interdisciplinarità” edito nel… millenovecentosettantasei – praticamente quaranta anni fa, nel secolo e nel millennio scorso – alle quali non credo sia necessario aggiungere nulla di altro.

Riguardo al concetto di “liquidità” citato nel titolo del post, si può senza dubbio dire che si riferisce ad un particolare stato della materia – cioè l’ essere “liquido” – tipico di molti oggetti in natura. Da oggi è applicabile – lo conferma il sito istituzionale www.sicurezzanazionale.gov.it – anche a fenomeni di ancor oggi complessa definizione come il terrorismo e ad atti/azioni come la minaccia infatti:

“[il terrorismo] è una minaccia liquida, cui bisogna rispondere con un upgrading dell’Intelligence” e che conseguentemente sia indispensabile interrogarsi su “Come si rinnova l’Intelligence nel tempo della minaccia fluida

Beh se qui stessimo facendo del banale sarcasmo alla domanda su come rinnovare l’intelligence a fronte di una minaccia liquida potremmo rispondere con un: tornando alla vecchia intelligence a compartimenti… “stagni? E allo stesso modo potremmo definire i gavettoni estivi come una “minaccia fluida”. Ma non è assolutamente mia intenzione scendere ad un livello tale di polemica, quindi risponderò in modo diverso.

Ovviamente chiunque, in realtà, ha ben compreso cosa si volesse intendere usando in modo poco ortodosso quei due termini. Tutti abbiamo capito che “terrorismo liquido” non è qualcosa che bagna e nemmeno riguarda la sistemazione di cariche esplosive nei pressi di una diga… ma che tendenzialmente è qualcosa (una minaccia, ad esempio?) che presenta proprietà variabilissime, un elevatissimo grado di adattabilità al modificarsi dei contesti, che sia di difficile… “contenimento”, eccetera.

Occorre però sottolineare come l’aggettivo “liquido” (o fluido, che in realtà è cosa abbastanza diversa) non identifica certamente il concetto più adatto ad indicare le proprietà che si volevano attribuire alla minaccia e al terrorismo.  Infatti 750 cc di Brunello di Montalcino prendono la forma della bottiglia che li contiene o, una volta versata, di un certo numero di calici. Nel più triste dei casi assume la forma di una larga chiazza liquida (appunto) e irregolare sul parquet, dopo che la bottiglia ci è disgraziatamente sfuggita di mano, precipitando a terra.

Ma pur essendo il Brunello un liquido e pur potendosi presentare in forme assai diverse (per esempio, immagino ci si possano fare anche dei ghiaccioli) rimane innegabile il fatto che l’oggetto originario, il “liquido” del Brunello, rimanga sempre e comunque oggettivabile come tale. Si può sempre dire, cioè, che quello che stava nella bottiglia e che ora è nei bicchieri, sul parquet o dentro il congelatore è comunque del “Brunello di Montalcino” e non del succo di ananas, o del Paraflù.

La domanda lecita è: è esattamente questo che si voleva intendere nell’articolo? O ci si voleva riferire ad altro? E se era esattamente questo ciò che si voleva dire, non vi pare che in una lectio magistralis ad un Master in intelligence e sicurezza, alla presenza dei vertici dell’Intelligence italiana, sarebbe stato corretto dirlo in questo modo? Senza ricorrere a immagini modaiole e relative ad una cultura ingenua derivante dalle “fantasie cinematografiche” dalle quali proprio l’intelligence intende – giustamente – allontanarsi?

La questione, dal mio punto di vista, è che non sempre conviene affidarsi alla prassi del “tanto ci siamo capiti”: in certi contesti ed in certe realtà occorre necessariamente ricorrere a canoni maggiormente formali, pena lo svilimento del discorso e della materia stessa che si sta trattando.

Questo, ovviamente, solo se davvero si intende perseguire quella cultura di elevato profilo che sarebbe lecito attendersi da un certo tipo di istituzioni. Diversamente non si tratterà di cultura ma di subcultura; termine che – tra l’altro – non va necessariamente  interpretato in senso negativo.

Dopotutto, come in quasi tutte le cose, è semplicemente solo una questione di scelta. E di consapevolezza della scelta.

 

Buona estate!