Pubblicato su LinkedIn il 5 marzo 2022

Quello che stiamo vivendo oggi (5 marzo 2022) è fuori da ogni dubbio definibile come “tempo di crisi”. Crisi che si manifesta chiaramente anche con un altro concetto: il “tempo di guerra”. Guerra: quante volte durante la precedente crisi – quella del COVID-19 – ci è piaciuto usare questo termine. Un termine che, per nostra fortuna, avevamo un po’ perso l’abitudine a usarlo nel sua accezione principale. O meglio, avevamo perso l’abitudine a usarlo nella sua accezione principale, per fatti che ci riguardassero così da vicino. Nel caso del COVID-19 usare “guerra” (al Covid, alla pandemia, eccetera…) ci concedeva la lusinga di un senso di mobilitazione, un senso di forza o meglio di “potenza”. Dopotutto, non nascondiamoci dietro un dito, sentivamo (sentiamo) tutti di poter vincere la “guerra al Covid”. Una “guerra” che – per quanto sapevamo già sarebbe stata lunga e assolutamente non priva di conseguenze tragiche – eravamo certi di poter vincere, e senza nemmeno troppe privazioni concrete, al netto dei (legittimissimi e anche necessari) “scontri” in punta di diritto (e non solo) tra le varie visioni e interpretazioni della pandemia.

Però la guerra “vera” – cioè la guerra tra gli uomini, non la guerra degli uomini contro qualcosa – pone chiaramente questioni ancora più complicate. Ma non voglio con queste considerazioni presentarmi come un ulteriore esperto di questioni e fatti strategici: non ne abbiamo bisogno e soprattutto non è il mio campo. E anche se lo fosse ci sarebbe gente molto più in gamba di me a doverne parlare con cognizione di causa. Questa premessa mi serviva soltanto per riflettere – dal mio livello di astrazione e attraverso gli strumenti concettuali della mia disciplina, l’OSINT – su due fatti:

  1. le invettive verso chi sui social esprime i propri pensieri su argomenti di cui non è esperto;
  2. l’ennesima riduzione di OSINT, anche durante la crisi in Ucraina, a mero ripetitore di fonti giornalistiche.

Punto 1

A ogni “switch” di tipo-di-crisi – che riguardi la guerra in Ucraina, la pandemia, la politica interna, le catastrofi naturali ma anche cose molto meno problematiche come il campionato di formula uno o quello di calcio… – da qualche tempo a questa parte appaiono sui social campagne di meme (più o meno spontanee, più o meno diffuse) che inveiscono contro chi – per lo più sui social – dice la sua, senza esserne particolarmente esperto, sulle cose che accadono.

Non è stato fornito nessun testo alternativo per questa immagine

Non capisco francamente questo atteggiamento. Siamo in una società matura dell’informazione, grazie a chi ci ha preceduto viviamo in una Repubblica che si può certamente ancora definire democratica (o tendenzialmente democratica, scegliete voi…), viviamo in un contesto completamente intriso di informazione, in completa simbiosi con dispositivi attraverso i quali vi accediamo e in uno stato di palese dipendenza dai sistemi che la gestiscono, la producono, la dispacciano e la controllano, primi fra tutti i media (di stampo più o meno giornalistico) e le reti sociali (i social network, o più semplicemente social).

In questo contesto come si può pensare di sbeffeggiare chi commenta fatti dei quali magari non è particolarmente esperto, ma fatti che vive direttamente e che incidono concretamente sulla sua vita e sul suo modo di stare all’interno di questa società matura dell’informazione? Perché mai non dovrebbe farlo? Perché mai dovrebbe sentire di astenersi dal farlo? Perché mai dovrebbe sentirsi obbligato ad astenersi dal farlo? Perché mai dovrebbe sentire l’esigenza di crearsi prima una expertise completa, affidabile e soprattutto referenziata e accettata prima di poter esternare alla sua rete sociale le impressioni e le sensazioni che la vita gli offre?

E perché mai altri dovrebbero sentirsi autorizzati a sovrainterpretare quelle impressioni e quelle sensazioni spacciandole per pareri professionali studiati, ragionati e addirittura che meritano di essere messi alla prova con tanto di “metodo scientifico”?

L’errore non è di chi esterna – magari in modo improprio o eccessivo o imprudente certo – la sua risposta (più o meno emotiva) a ciò che i fatti della vita – e la loro espressione tecno-documentale – gli offre. L’errore sta in chi vede in quelle esternazioni un fatto da sottoporre al vaglio scientifico della intera comunità sociale. Abbiamo paura della pandemia? Certo. Abbiamo paura delle vaccinazioni? Può essere. Abbiamo paura della guerra, che finisca il gas, che finiscano il pane, l’acqua, la farina? Ovviamente ancora di più. Perché chiunque dovrebbe sentirsi obbligato a prendersi un paio di lauree in questioni strategiche (o in medicina, ingegneria, ecc.) semplicemente per potersi sentire autorizzato a parlare liberamente di come lo fanno sentire queste cose, per esprimere a suo modo – e alla sua rete di relazioni significative – le preoccupazioni che queste cosa gli procurano?

Si potrà osservare che il punto sta nella misura in cui queste esternazioni finiscono poi per generare “bolle” che finiscono per sostenere sistemi di conoscenze completamente non validate che nel migliore dei casi finiscono per essere potenzialmente sbagliate e deleterie. Ma, di nuovo, il problema non è nella “bolla” ma in chi non sottopone a validazione quella “bolla” ovvero vi si interfaccia con il tipico fastidio e insofferenza che il (presunto) esperto di dominio prova quando qualcuno si permette di entrare, non invitato, nel suo specifico campo di competenze (campo di competenze magari a fatica costruito in anni di studio e esperienze).

E’ qualcosa che tutti, chi più chi meno, abbiamo provato. E probabilmente tutti l’abbiamo provata stando da entrambe le posizioni. Nessuno di noi è ragionevolmente così profondamente esperto del “tutto” da poter recitare la parte dell’esperto di dominio… in ogni dominio. Tutti abbiamo incompetenze (che per lo più sono in numero incredibilmente superiore alle competenze). Così come tutti abbiamo il sacrosanto diritto di descrivere l’effetto che ci fa il mondo basandoci sulle nostre (poche) competenze e sulle nostre (molte) incompetenze. Non possiamo davvero fare altro, dato che la massima parte di ciò che conosciamo – o che crediamo di conoscere – del mondo è fondata esclusivamente su pre-concetti.

Prima di criticare chi si improvvisa di volta in volta commentatore epidemiologo, o esperto di armi distruzioni di massa, o di storia dei conflitti interetnici, o Commissario Tecnico della nazionale di Curling e così via, dovremmo fermarci un attimo a riflettere su come ci apparirebbe una società in cui ognuno di noi dovesse esprimersi non più sulle cose che “crede” di conoscere, ma soltanto sulle cose che un qualche tipo di entità – terza ed esterna a noi – certifichi ufficialmente che conosciamo.

I due soliti problemi: 1) censurare (con la forza della repressione o della “banale” derisione) chi non reputiamo all’altezza di esprimere un qualsiasi tipo di pensiero è qualcosa di una gravità inaudita e 2) chi istituisce, regola o “addestra” l’entità che dovrebbe certificare chi-può-dire-cosa e su quale argomento (entità che pertanto avrebbe il compito di apporre le relative censure)?

In termini di OSINT – in termini di “Teoria Generale per l’Intelligence delle Fonti Aperte”, così come ho tentato di proporla nella mia “trilogia” – quello della accountability non è affatto un problema della fonte (aperta) bensì di chi attinge (e pertanto sottopone a validazione) a quella fonte. Che poi la fonte (aperta) debba rispondere al proprio network di fonti esponendo i metodi e le prassi attraverso le quali costruisce e narra le proprie conoscenze questo è un altro conto. Inoltre qui stiamo parlando di fonti (aperte) che possiamo definire “professionali”, ovvero che si pongono professionalmente come tali. Ma chi esprime la propria opinione (quale che sia, più o meno ragionata, più o meno profonda, più o meno consolidata, più o meno dimostrabile) all’interno di un network sociale su un qualsiasi fatto della vita beh… non è affatto detto che lo faccia con la volontà di esprimere una sua presunta professionalità “in quanto fonte”. Professionalità il cui onere di valutazione e validazione ricade sempre e comunque al soggetto che intende fruire di quella fonte.

Punto 2

Anche nel caso di questa crisi internazionale che vede l’Ucraina oggetto di una pressione bellica non indifferente da parte della Russia, hanno ricominciato a proliferare all’interno dei network sociali le classiche “analisi OSINT”, o analisi basate su “informazioni OSINT”, o analisi effettuate da “esperti OSINT”.

A ben vedere all’interno di questi prodotti di “OSINT” c’è assai poco. E ancora meno c’è della parte “INT” dell’acronimo Open Source Intelligence. La massima parte di ciò che si legge fa certamente riferimento a “informazioni da fonte aperta” – e per lo più di natura eminentemente giornalistica – ma di INT(elligence), quindi di attività di analisi finalizzate all’ottenimento di una condizione di vantaggio strategico sui competitori, c’è ben poco (o nulla). Anche qui qualche nota: 1) fare OSINT non significa banalmente fare “informazione” bensì implementare una funzione analitica complessa che è sempre finalizzata all’ottenimento di un vantaggio di tipo strategico relativamente a un obbiettivo, una missione, una finalità (che può benissimo anche essere quella umanitaria, ci mancherebbe); 2) fare OSINT non vuol dire collazionare articoli, tweet post relativi a un argomento da ripubblicare oi all’interno di altri nuovi articoli, tweet post; 3) fare OSINT non vuol dire nemmeno pubblicare e commentare cartine, screenshot da siti che geolocalizzano navi e aerei, o zoomare su fotografie estratte dai social per evidenziare presunti particolari rilevanti. Non che non possano essere attività anche utili, intendiamoci, ma tutto questo ha certamente un nome diverso (in parte e per alcuni aspetti – prendendo il tutto con le pinze – potremmo ad esempio parlare vagamente di IMINT o di HUMINT…).

Ma, di nuovo, come detto per il “Punto 1”, il problema non è della fonte (più o meno aperta, più o meno professionale, più o meno spontanea). Il problema è di chi – per inettitudine, disinteresse o noia – omette totalmente qualsiasi fase di validazione. Attenzione, validazione della fonte, non delle informazioni… perché se non sappiamo nulla di un contesto, a poco o niente serve tentare di validare informazioni su quello specifico contesto (nemmeno il cosiddetto “incrocio” di più informazioni, nella realtà delle cose, serve a molto…). L’unica cosa che possiamo davvero fare è validare la fonte al meglio delle nostre possibilità, attitudini e conoscenze.

Soltanto in questo modo possiamo sperare di ottenere elementi concreti ed effettivi sui quali fondare il grado di fiducia che accordiamo a quella fonte, quindi alle informazioni che veicola. Per questo motivo, da qualche anno ormai, provo a sensibilizzare chi ha la pazienza di leggermi sulla necessità di costruire, all’interno di una Teoria Generale per l’Intelligence delle Fonti Aperte, una apposita “Dottrina delle Fonti”, che è l’unica (se non l’ultima) possibilità di contrastare disinformazione, misinformazione, fake news e altri simili fenomeni contando su una buona “cassetta degli attrezzi concettuale“: insomma, la dotazione minima dei “ferri del mestiere” di chi si occupa di fonti e informazioni aperte.

Detto ciò, ad oggi la speranza non può che essere quella di poter tornare a parlare presto di questi argomenti con la dovuta serenità e senza “urgenze”. E soprattutto da un punto di vista che possa essere soltanto “teorico”. E’ sempre meglio la teoria della guerra, che la guerra stessa.